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BLOGVS | April 25, 2024

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A tavola con… Carlo Emilio Gadda

Emanuele Bonati

Vi propongo un brano da La cognizione del dolore (Einaudi), romanzo del 1970 di Carlo Emilio Gadda; una delle più belle descrizioni di pranzi, con le pietanze che assumono quasi una consistenza reale in bocca man mano che si procede nella lettura…

Una scrittura barocca, quella di Gadda, mai come in questo brano tutta da assaporare.
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Del grifo e del naturale porcino di lui, altresì adduceva la favola, in aggiunta di quel di sopra, come nel corso di tutta una interminabile estate egli non avesse cibato se non aragoste in salsa tartara, merlani in bianco con fiotti di majonese, o due o tre volte il peje-rey; e piccioni arrostiti in casseruola con i rosmarini e le patatine novelle, dolci, ma non troppo, e piccolette, ma di già un po’ sfatte, inficiate, queste, nel sugo stesso venutone da quegli stessi piccioni: farciti alla lor volta, secondo una ricetta andalusa, con l’origano, la salvia, il basilico, il timo, il rosmarino, il mentastro, e pimiento, zibibbo, lardo di scrofa, cervelli di pollo, zenzero, pepe rosso, chiodi di garofano, ed altre patate ancora, di dentro, quasiché non bastassero quelle altre messe a contorno, cioè di fuori del deretano del piccione; che erano quasi divenute una seconda polpa anche loro, tanto vi si erano incorporate, nel deretano: come se l’uccello, una volta arrostito, avesse acquistato dei visceri più confacenti alla sua nuova situazione di pollo arrosto, ma più piccolo e grasso, del pollo, perché era invece un piccione.
Ed erano, anche queste patate di dentro, come del resto quelle di fuori, estremamente farinose in un primo tatto della sua lingua, dove però non appena ve le cucchiarasse, dacché il cucchiaio vi doveva adibire, il lurco, le si sdilinquivano subito in un’unica pasta tutt’insieme con il loro involto carnoso, cioè l’evacuato e rinfarcito animale, d’un sapore generale di rosmarino, o, a farci caso, di basilico, che dava però il passo ben presto, e poi del tutto partita vinta, a quel fuoco dannato del pepe rosso. Poiché maciullava tutto in una volta, cioè piccioni e patate e cervelli e lardelli e pepe e chiodi (di garofano), il porco, innaffiandoli poi, che non erano neanche arrivati in fondo, coi vini prelibati della regione preandina, e i pesci invece, e la ragusta, ammappelo!, quelli coi bianchi secchi, limpidissimi, da ventidue e fino ventotto centavos, del Nevado, o del Cerro Pequeño.
E voleva, tra i labbri, d’un diaccio calice il labbro sottile e molato, la vitreità destituita di spessore, la purità frigida ed incorporea, netto cristallo. E in quei momenti di spregio aborriva con ira i bicchierazzi sul tappeto verde, tozzi e isbilenchi come da Manoel Torre, sfaccettati alla peggio insino alla metà e grami di bolle d’aria e d’incrini. Ma in mancanza di meglio non li avrebbe respinti…. neppur quelli! Oh! non era il tipo, così la favola, del «transeat a me!».
Basti dire che queste vassallate dello schiaccianoci e del pepe d’Affrica le usava egli, alla propria ingorda capienza, dentro uno stambugio tenebrosissimo del Riachuelo, dove frequentavano cingani e altre genti di strapazzo e guitarra, e gatti e gatte d’amor libero tra le scarpe de’ pasturanti, in contenzione continova sopra gli ossi di pollo e le resche per quanto iscarnite, che quei superni vanno gittando loro, dopo ogni loro ciminale perpetrato spolpamento, nel suolo gattesco. E dopo questo po’ po’ di lappa lappa aveva anche la faccia, il sin vergüenza, di cercar briga ogni volta al trattore, col dire che quello gli conteggiava simili portate troppo più che una ordinaria somministrazione di puchero. Il trattore, benché avesse a mano il grembiule e non il coltello, – (se ne detergeva usualmente, con quel zinale color sciacquatura dei piatti, il sudato del collo, torno torno tutta la grascia), – lo mandò un bel giorno a far friggere, esortandolo cercar altrove il mangiare, dove potesse intasarsi meglio, e per nulla; e lui allora, el hidalgo, invece di rompergli una salsiera in testa, a quel turpe, si fece mignolo mignolo dalla vergüenza rimpetto a tutti i rimanenti attavolati che pasturellavano e brucavano con tanto decorosa benignità, e taluno glugolando alcun gotto; indiché non appena gli venne meglio sgattaiolò per la porticina di strada: poiché ben vedeva pure lui, per quanto hidalgo fosse, che da nessun altro porcile in tutta la terra avrebbe potuto pascere tozzi d’aragoste con cucchiarate di majonese a quel modo, e a così basso mercato.

Comments

  1. è un testo molto bello…

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